CONCENTRAZIONE E RAREFAZIONE INSEDIATIVA, TRA REGOLAZIONE URBANISTICA E MANUTENZIONE AMBIENTALE IN EMILIA ROMAGNA E NELLE REGIONI PADANE: FARE MEGLIO CON MENO (SUOLO)
a cura di: Ugo Baldini e Patrizia Chiricoscarica il documentoPer un territorio, come quello della Valle Padana, dove, in termini di acqua e di suolo, si concentra gran parte della risorsa strategica del Paese e dove è presente un apparato economico-produttivo e una struttura urbana tanto estesi e consolidati da qualificare quest’area come uno degli aggregati “megalopolitani” di maggior rilievo nel panorama continentale e globale, il consumo di suolo emerge come tema centrale e come indicatore sensibile della salute urbanistica dei territori, come misura empirica del contributo che la pianificazione urbanistica riesce a dare ai problemi di recupero di efficienza del Paese, in una fase che registra un preoccupante declino della attenzione dedicata dalla politica ai temi del governo urbanistico del territorio e, corrispondentemente, una riduzione sensibile delle risorse ad esso destinate.
Ciò vale ancor di più per una regione come l’Emilia Romagna dove si incrociano tradizioni radicate di imprenditorialità rurale, che rappresentano esemplarmente le vicende del Nord-Est - Centro, e una presenza di cultura manifatturiera fortemente vocata all’innovazione, che la colloca alla frontiera della competizione con cui si misura l’intera regione padana.
Area questa dove gli investimenti in pianificazione urbanistica purtuttavia non sono stati pochi nel tempo e dove ancora di recente nuove leggi urbanistiche hanno rilanciato l’idea che una articolazione del processo di piano (un piano in generale più attento alla dimensione strategico-strutturale, e, in Emilia Romagna, inseguita in questo dal Piemonte, scomposto ulteriormente in quella regolativa-manutentiva e in quella della attuazione efficiente ed efficace; il tutto sempre entro l’orizzonte della sostenibilità) possa portare il sistema regionale, senza pagare scotti eccessivi in tempi e costi, ad un livello di produttività istituzionale rigenerato e in grado di proporre modelli di assetto appropriati “per le nuove sfide”.
Un’ idea che è in piena fase di attuazione e verifica e che sta generando un dibattito centrato sul rapporto costo efficacia della innovazione introdotta e sulla capacità di produrre “più innovazione e più sostenibilità” a costi istituzionali contenuti.
Un’idea della sostenibilità che riconosce pur con diversi accenti come il suolo agricolo (e la biodiversità e il paesaggio ad esso connessi), costituiscano un patrimonio sociale comune, e come la ricchezza di questo territorio e della popolazione che vi abita, possa derivare principalmente dalla tutela e dalla valorizzazione di questo capitale fisso e non da un suo rischioso e imprevidente consumo.
Il suolo agricolo, la biodiversità e il paesaggio (lo spazio rurale nella sua integrità), devono essere gestiti come un vero e proprio patrimonio del Paese capace di produrre una reale moltiplicazione di ricchezza e di benessere, solo se valorizzato nel rispetto delle peculiarità e delle eccellenze: tra i principi della Convenzione Europea del Paesaggio risalta non a caso l’idea che la qualità del paesaggio possa fornire un contributo sostanziale al fondamentale ed imprescindibile equilibrio da ricercare tra le attività umane e le ragioni della natura.
Equilibrio ricercato costantemente anche dal sistema delle dalle Aree Naturali Protette, nelle proprie esperienze di gestione, da sottoporre in tal senso ormai ad una utile verifica (a vent’anni dalla Legge Quadro fondativa) che riproponga i Parchi, nei modi opportuni, come veri e propri laboratori della sostenibilità paesistica e ambientale: “fare meglio con meno suolo” potrebbe essere la giusta parola d’ordine.
Dinamiche di lungo periodo 1951 - 2001Nel
decennio trascorso tra i due ultimi censimenti agricoli (1990-2000)
nelle sette regioni dell’area padano-veneta (Liguria compresa) la
Superficie Agricola Utilizzata (SAU) si è ridotta di quasi 300mila
ettari (il 5,9% del totale), cosa che possiamo supporre abbia
comportato una perdita rilevante in termini di biodiversità, di base
alimentare, di paesaggio rurale, di cultura imprenditoriale, di
tradizione manutentiva.
Problema percepito e registrato a livello
nazionale, nella sua incalzante problematicità, tanto da indurre il
Codice dei beni culturali e del paesaggio a dedicare uno specifico
richiamo con l’art. 135 Pianificazione paesaggistica, comma 4, lettera
c), alla “salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche degli
ambiti territoriali, assicurando, al contempo, il minor consumo del
territorio”.
Questa sensibile variazione in decremento della SAU
assume due distinti significati: da una parte il consumo irreversibile
da parte delle urbanizzazioni di aree agricole, particolarmente
connotate dalla presenza di suoli fertili, dall’altra l’abbandono, da
parte delle aziende agricole, di aree marginali, sospinte verso
dinamiche di naturalizzazione (inselvatichimento) il più delle volte
incontrollate e non ospitate/gestite entro prospettive di allestimento
di aree protette o di aree dotate in vario modo di programmi di
gestione ambientale.
Una immagine interessante di questa duplice
dimensione del consumo di suolo è quella che emerge con tutta evidenza
da un bilancio delle variazioni della SAU che si sono registrate
rispettivamente nelle aree di maggiore concentrazione e in quelle di
più marcata rarefazione insediativa.
Nell’arco della seconda metà
del ventesimo secolo si è infatti realizzata una significativa
redistribuzione della popolazione tra le diverse parti del Paese ed
anche all’interno dei diversi territori regionali, redistribuzione che
è resa ancora più evidente da una lettura dinamica dei fenomeni,
operata valutando le diverse condizioni di accessibilità determinate,
ai due estremi del periodo (1951 e 2001), dalla configurazione della
rete infrastrutturale e dalla distribuzione della popolazione residente
nei comuni.
Dei 4.467 comuni presenti nelle sette regioni dell’area
padano-veneta, 2.580 sono caratterizzati da fenomeni di concentrazione
avendo conosciuto nel cinquantennio un incremento della popolazione
accessibile nel breve raggio superiore al 10%. In essi risiede il 76,2%
della popolazione e si produce il 79% del PIL.
In questi stessi comuni
la perdita di SAU (che nel contesto delle aree di concentrazione è in
larga misura da intendersi a tutti gli effetti come consumo di suolo)
ha assunto negli ultimi dieci anni le dimensioni di 130mila ettari che
rappresentano il 4.9% della SAU relativa e il 3,2% dell’intera SAU “del
Nord”.
In Emilia Romagna le aree di concentrazione interessano una
frazione più ridotta dei comuni (178 su 341) ma una quota di
popolazione e di PIL sostanzialmente analoga a quella dell’intera area
padana (il 75,2% della popolazione e il 79,4% del PIL). In queste aree
“forti” della regione, dove le dinamiche insediative della seconda metà
del XX secolo hanno attratto lungo la dorsale della Via Emilia e nelle
aree di costa flussi rilevanti di popolazione in provenienza dalle aree
rurali ma poi, a partire dagli anni ’80 anche dalle regioni meridionali
del paese e dall’estero, la riduzione della SAU che si è registrata
nell’ultimo decennio presenta una dinamica erosiva più intensa di
quella che si è prodotta in media nell’area padana.
Con una
riduzione del 7,3% che con quella lombarda del 7,6% è la maggiore di
quella registrata dalle altre grandi regioni del bacino padano-veneto
(a confronto la riduzione per le analoghe aree del Veneto è stata il
3,9% quella del Piemonte appena l’1,6%), l’Emilia Romagna registra una
perdita di SAU di quasi 50.000 ettari: il 35,6% del totale della SAU
“scomparsa” nelle aree di concentrazione delle regioni dell’area
padana, mentre l’incidenza della SAU emiliana è, in queste stesse aree,
appena il 23,8% del totale “padano”.
Nello stesso arco temporale
intercorso tra i due ultimi censimenti dell’agricoltura - e sempre
nelle sette regioni del Nord - 885 comuni si sono invece caratterizzati
per i processi di rarefazione insediativa (misurata da una diminuzione
della popolazione accessibile entro 30’ superiore al 10%) che li hanno
investiti.
In questi comuni, dislocati prevalentemente lungo
l’arco alpino e appenninico (quest’ultimo in modo più massiccio) oltre
che nella bassa pianura del Po, risiede ora l’8,4% della popolazione e
si produce il 6,8% del PIL. Anche in questi comuni si è registrato un
arretramento della SAU, riconducibile però prevalentemente ai fenomeni
dell’abbandono (da leggere tanto correlato alla diminuzione del numero
di aziende che come effetto della riduzione del presidio umano sul
territorio); questo arretramento è quantificabile nella misura di
124mila ettari, pari al 10% della SAU relativa.
Per l’Emilia
Romagna, che presenta una estensione delle aree di rarefazione
decisamente maggiore della media padana (111 comuni con il 13,6% della
popolazione e il 10,9% del PIL), le dinamiche di perdita della SAU sono
altrettanto intense (- 14,3% nel decennio, cioè 60mila ettari in meno)
anche se in questo caso sono minori le distanze dalla media dell’area
padana e la collocazione relativa rispetto alle grandi regioni del
bacino vede l’Emilia al primo posto davanti al Piemonte, che nelle sue
aree marginali registra una riduzione del 12,8% della SAU.
* * * *
Considerazioni
non dissimili possono essere sviluppate a partire da un bilancio delle
utilizzazioni agricole del territorio padano operato a partire dalla
fotointerpretazione degli usi del suolo. Le coperture “Corine - land
cover” del 1994 e del 2004 consentono di costruire, se pure con qualche
approssimazione, un indice di consumo del suolo la cui variazione,
letta con riferimento alle stesse geografie della concentrazione e
della rarefazione insediativa di lungo periodo, porta a conclusioni
analoghe a quelle sviluppate per la variazione della SAU.
Infatti
l’indice di consumo di suolo (superficie urbanizzata su totale
comunale) segnala una evoluzione delle superfici insediate di
dimensione apprezzabile all’interno delle aree di concentrazione che è
pari all’ 11,7%, passando dal 7,7% del totale della superficie
territoriale (al 1994) all’ 8,6% al 2004. Si registra così un
incremento delle superfici insediate (in forma continua) di oltre
51mila ettari, incremento che interessa quindi lo 0.9% della superficie
territoriale dei 4.467 comuni.
L’evoluzione dei tessuti
insediativi “compatti” rilevati dalla fotointerpretazione alla scala
1:100.000, coprirebbe quindi appena 1/3 della SAU “rilasciata” dalle
aziende agricole verso altre destinazioni, in un arco temporale
leggermente slittato ma comunque commisurabile per durata a quello
registrato da Corine.
Per i due terzi restanti, oltre a processi
di abbandono e rinaturalizzazione di aree marginali presenti anche
all’interno di questo campo di aree di più forte antropizzazione, una
componente rilevante, sia in termini quantitativi che per la natura dei
processi in corso, è quella che può essere attribuita ai fenomeni di
disseminazione insediativa (sprawl) particolarmente intensi in tutta
l’area padana nel corso degli anni più recenti.
Fenomeni, questi,
che hanno prodotto esiti significativi (ma di norma meno percepibili di
quelli prodotti dalla estensione delle aree urbane) che si sono
manifestati sia in termini di materiale sottrazione di suolo investito
da nuovi processi di urbanizzazione, dispersa e a bassa densità, che in
termini di ingresso di funzioni extragricole nei manufatti rurali e nei
loro spazi pertinenziali, sottraendo comunque aree alla utilizzazione
agricola, per quanto la si voglia intendere con larghezza
interpretativa.
Dinamiche di breve periodo 1991 - 2001
* * * *
Questo
scarto è avvertibile con ancora maggior evidenza nella realtà regionale
dell’Emilia Romagna dove il consumo di suolo registrato da Corine nelle
aree di concentrazione insediativa sarebbe di appena 4mila ettari che
corrispondono a 1/15 appena della riduzione della SAU e allo 0,45%
della superficie territoriale di queste aree.
Il dato emiliano
registra sicuramente il maggior peso degli insediamenti minori (che per
le loro dimensioni possono essere sfuggiti al setaccio di Corine, che,
come si è detto, ha una risoluzione corrispondente alla scala
1:100,000) nel sistema insediativo della regione.
Una diversità
del modello insediativo che è evidente nel confronto con la Lombardia,
dove le superfici insediate crescono di quasi 25mila ettari, o con il
Piemonte, dove crescono di quasi 13mila, e invece con il Veneto (che ha
una struttura territoriale assai simile a quella dell’Emilia Romagna)
dove pure le aree insediate crescono di poco più di 4mila ettari nel
decennio. Ma la singolarità del dato emiliano è anche il segno del
rilievo che i fenomeni della disseminazione insediativa hanno assunto
recentemente in regione e più in generale nelle aree del Nord Est,
caratterizzate da maggiori dinamismi economici e da una più diretta
connessione tra la matrice agricola e rurale e i processi di sviluppo
industriale; processi che sembrano dover scontare – assieme ai molti
punti di vantaggio al loro attivo – anche il prezzo di un maggiore
consumo di suolo.
Per le aree di rarefazione insediativa, il consumo
di suolo misurato attraverso l’evoluzione degli insediamenti compatti
(così come ci viene restituita dalla fotointerpretazione operata da
Corine) è ovviamente molto più contenuto: meno di 8mila ettari rispetto
ai 107mila di SAU scomparsa nello stesso territorio. Poco meno di mille
ettari tra questi sono quelli perduti dalla regione Emilia Romagna,
nella quale peraltro le dinamiche erosive nelle aree di rarefazione
risulterebbero di più modesta intensità.
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Sin
qui le dinamiche recenti del consumo di suolo sono state illustrate
prendendo a riferimento una geografia dei processi di
territorializzazione consolidati nel lungo periodo (1951-2001).
Se
prendiamo invece in considerazione un orizzonte più breve, come quello
che intercorre tra i due ultimi censimenti della popolazione, emerge
una geografia marcatamente diversa (seppure non totalmente inaspettata,
visti i diversi tassi di sviluppo riscontrabili nelle realtà regionali
e sub-regionali) dove, alla tradizionale contrapposizione le tra aree
più urbane (e infrastrutturate) e lo spazio rurale, si sostituiscono
nuove dicotomie: quella che si registra tra le città maggiori, in
flessione di popolazione, e le rispettive corone, in forte crescita, e
quella che distingue le regioni del Nord Ovest, stagnanti, rispetto
alle regioni del Nord Est, con accentuate dinamiche di crescita.
Questa
nuova geografia delle aree emergenti interessa 1.854 comuni nelle sette
regioni del Nord, comuni che nel decennio 1991 - 2001 hanno conosciuto
un incremento della popolazione accessibile di breve raggio superiore
al 2%; in questi 1.854 comuni risiede il 38,5% della popolazione e si
produce il 36,4% del PIL.
Nonostante la assenza dal novero di questi
comuni “emergenti” di tutte le città di maggiore dimensione, la
riduzione della SAU (-108mila ettari in dieci anni) si è manifestata
per essi in termini identici a quanto non si sia registrato nello
stesso periodo nelle aree (più estese) dove i processi di
concentrazione insediativa erano da più lungo tempo consolidati.
L’Emilia
Romagna partecipa a questa nuova geografia con particolare intensità
giacché ben 170 comuni (rispetto ai 178 caratterizzati come aree di
concentrazione per le dinamiche di lungo periodo) rientrano nel novero
delle “aree emergenti” e in essi risiede il 49,9% della popolazione e
si produce analogamente il 49,6% del PIL.
Per l’Emilia Romagna la
riduzione della SAU in questi comuni è appena più marcata di quella che
si registra per l’aggregato dei comuni il cui ruolo attrattivo si è
consolidato nell’intero arco della seconda metà del XX secolo, con una
variazione percentuale del -10,7% rispetto a quella del -7,3%
registrata per l’aggregato più ampio; da rimarcare il fatto che la
differenza principale tra i due aggregati è rappresentata in ambito
regionale dall’assenza tra le “aree emergenti” dell’area urbana di
Bologna, interessata nello scorso decennio da forti processi di
sub-urbanizzazione.
Il confronto tra le variazioni di SAU che
assumono come aree di bilancio rispettivamente i luoghi di
concentrazione insediativa selezionati dalle dinamiche cumulative di
lungo periodo e quelli invece nei quali i processi di concentrazione
insediativa registrano le sole dinamiche del periodo più recente e che
per questo possiamo definire “emergenti”, sembrerebbe dunque confermare
come la maggiore intensità dei fenomeni di consumo di suolo sia dovuta
a processi di urbanizzazione che si sono venuti via via allontanando
dal modello di crescita urbana della città compatta delle maggiori
agglomerazioni per interessare le aree di crescita diffusa nelle loro
diverse tipologie: dai sistemi regionali policentrici, alle aree di
integrazione urbano-rurale sino alle vere e proprie manifestazioni di
sprawl nelle periferie filamentose o nella intrusione di funzioni
“urbane” all’interno di aree e di manufatti agricoli.
Il danno
prodotto all’ecosistema padano da questo complesso di fenomeni è
evidente, quando si pensi che il consumo di suolo non è di per se solo
una perdita secca per la produzione agricola o per il paesaggio e gli
spazi aperti, ma colpisce un più vasto complesso di funzioni che il
suolo agricolo svolge: produzione di biomassa; stoccaggio, filtraggio e
trasformazione di nutrienti; riserva di biodiversità e stoccaggio di
carbonio.
Paesaggi colturali
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Ciò detto,
per far fronte a dinamiche erosive di così forte intensità, politiche
che vogliano effettivamente contenere e contrastare il consumo di suolo
devono poter contare su strumenti efficaci e appropriati ai diversi
contesti.
Mentre la ricerca avanza per qualificare le diverse
funzioni dei suoli fertili e le diverse modalità di intervento che
possono rendere ambientalmente meno oneroso il loro consumo, e mentre
si registrano i suoi progressi nella letteratura scientifica e nei
convegni, ormai non più episodici, sull’argomento, è necessario che le
politiche territoriali delle Regioni assumano esplicitamente e
tempestivamente l’obiettivo di ridurre la dimensione quantitativa del
consumo di suolo.
Ciò può avvenire innanzitutto agendo per
migliorare l’efficienza e la qualità delle trasformazioni nelle aree
già urbanizzate, non secondariamente agendo per contenere
l’urbanizzazione di suoli vergini. Un contenimento, quest’ultimo, che
si può ottenere vuoi introducendo in via amministrativa
contingentamenti quantitativi nei confronti delle trasformazioni
programmabili dai piani urbanistici (come prevede - prevedeva? - la
recente legge urbanistica veneta), vuoi introducendo disincentivi
economici con l’istituzione di una tassa regionale sul consumo di suolo
(come non ha ancora fatto nessuna Regione).
Per quanto riguarda
invece il fenomeno (di portata nazionale) della perdita, pur entro
certi limiti “reversibile”, di suolo nelle aree dell’abbandono, la si
deve contrastare intendendo questi suoli come patrimonio da mantenere
per le generazioni future e quindi come una risorsa paesistica da
manutenere e da compensare per i servizi ambientali (sicurezza,
fruizione, naturalità, identità) che è in grado di produrre per il
Paese intero.
In tutti i casi il rischio è quello di una perdita di
patrimonio paesistico e paesaggistico, da contrastare nei modi che la
Convenzione Europea ci suggerisce valorizzando la percezione locale del
paesaggio e il valore identitario che esso assume per le comunità
locali e dando una ragione in più alle politiche di istituzione di aree
protette opportunamente “messe in rete”, intese sia come contrasto
efficace all’erosione di risorse strutturali (vedi in particolare i
fiumi), nelle aree a forte pressione antropica, sia come ricomposizione
consapevole entro una strategia di servizio ambientale di quelle aree
marginali scese – temporaneamente, ci dice la storia - sotto la soglia
di utilità economica.
Dobbiamo in aggiunta a tutto ciò avere
presente anche un’altra minaccia, connessa alla perdita di suolo
agricolo, vale a dire la possibilità per esso di essere concausa del
dissesto idrogeologico, per effetto di una impermeabilizzazione
imprudente o per conseguenza di una campagna non più drenata e
manutenuta dagli agricoltori.
E’ necessario in definitiva che del
consumo di suolo si considerino le conseguenze in termini di perdita di
valori territoriali ed identitari che il suolo stesso assume in ogni
sua specifica configurazione; riconoscendo al suolo tutte le complesse
funzioni che gli appartengono e attribuendo ad esso il concetto di
risorsa misurabile, quantificabile, finita ed esauribile, alla stregua
dell’aria e dell’acqua da assoggettare a misure di tutela e
conservazione.
Tra le responsabilità dell’urbanistica “della
sostenibilità” ci sta naturalmente anche quella di studiare i processi
di riduzione della risorsa suolo: chiediamoci a questo proposito se,
tra le analisi condotte in occasione della formazione degli strumenti
urbanistici, sia sempre presente una attenta rappresentazione dell’uso
del suolo agronaturale, prodotta alla scala opportuna tale da sostenere
convincenti bilanci ecopaesistici; un uso misurato anche su più
intervalli temporali così da dare forma ad una visione diacronica del
mutamento consentendo poi di contabilizzare i consumi ulteriori
generati dal Piano in elaborazione, da sottoporre ad una Valutazione
Ambientale Strategica che si faccia carico seriamente del destino delle
risorse primarie.Chiediamoci questo ed altro.

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L'articolo è in corso di pubblicazione su INFORUM n. 32 - Periodico della Regione Emilia Romagna